Sono appena rientrato dalla California del Sud con un pensiero in testa che ha a che fare con la vendita professionale, disciplina nella quale compio un incessante lavoro di ricerca e sviluppo da ormai ventun anni.
Gli USA in generale sono la patria della vendita e delle tecniche per trovare nuovi clienti, del marketing, del come promuovere i propri prodotti o servizi e di come mettere tutte queste competenze al servizio della crescita economica dell’azienda e di sé stessi come titolari di impresa, di liberi professionisti o di venditori.
Se dovessi nominare un posto che sento come “casa” nel mondo per attitudini professionali, non avrei esitazione nel citare la California del Sud.
Qui innanzitutto, come è norma negli USA tutti sono venditori. In Italia si percepisce come un “venditore” colui che ricopre il ruolo di “agente di commercio”, cioè detto in altro modo il rappresentante con la valigetta, come si diceva ai miei tempi prima che venissero inventate parole nuove e neologismi anglofoni come “account”, “sales manager” e altri che è pur anco inutile citare.
Qui un commesso è un venditore. Un cameriere è un venditore, straordinariamente più preparato alla vendita del “venditore” medio italiano che spesso si considera una persona che ricopre un lavoro di ripiego perché non ha trovato un posto fisso da qualche parte, come tanto avrebbero ambito mamma e papà.
Sono venditori e sono straordinariamente preparati perché spesso guadagnano solo dalle mance che lascerai o comunque quella sarà una parte preponderante della loro retribuzione.
L’oscurantismo nei confronti dei venditori italiani
Non escludo a priori che qualcuno qui sogni anch’egli qualcosa di simile al reddito di cittadinanza, ma per quanto poco conti la mia statistica personale, ogni persona che ho incontrato come “operatore di contatto con i clienti” nei vari locali è ben felice di farlo e pur essendo spesso un lavoro molto duro, è in grado di offrire grandi soddisfazioni e possibilità di costruirsi un futuro.
Che sia studiare nel resto della giornata, diventare capo servizio dove si trova in questo momento o in un ristorante o negozio della catena nella quale opera, o che sia mettersi decisamente in proprio nel medio futuro.
Dicevo che mi sento professionalmente con il cuore statunitense perché, per fare un esempio tra i tanti, qualche giorno fa proprio mentre ero in California mi sono imbattuto in una discussione su un gruppo di esercenti italiani che si occupano di ristorazione.
Il fulcro della discussione che si era accesa riguardava su come dovessero essere distribuite le mance all’interno del locale.
Ti sorprenderà sapere che nel mondo della ristorazione e del come si ridistribuiscono le mance non vi è nulla da inventare nel mondo. Basta fare esattamente come si fa in maniera corretta nel mondo civilizzato: Le mance sono del cameriere. Fine.
Perché sto sottolineando questo aspetto? Per il semplice motivo che il cameriere non è un dipendente “come gli altri”. E’ il venditore dell’azienda e che il piccolo ristoratore italiano con la mamma in cucina e lo zio alla cassa ci creda o meno, da lui e non dalle altre componenti della squadra dipende il fatturato ma soprattutto il margine finale per scontrino del singolo cliente.
Lo ridico in maniera più semplice: Il cameriere è il venditore. Le mance vanno a lui. Fine. Perché è lui che se sa lavorare fa sì che il cliente venga portato ad acquistare quelle combinazioni e quelle varianti di cibo e bevande che soddisfano contemporaneamente il cliente -più che se fosse lasciato allo sbando ad ordinare da solo-, aggiungono quel clima di piacevole accoglienza che fa la differenza nella scelta di un locale rispetto che a un altro e nel mentre assicurano il massimo della redditività al ristorante stesso.
Certo che ogni ruolo è importante in ogni azienda. Certo che è importante che il cuoco cucini bene. Certo che è importante tutto. Ma “nell’ultimo miglio” come lo chiamano qui in USA, la differenza la fa il venditore.
Applicare questa semplice legge, cioè spiegare che le mance sono il premio per l’esperienza che il cameriere/venditore offre al cliente (e come questo sia il modo migliore per guadagnare di più e avere più profitti) pareva impossibile in quel gruppo di ristoratori in salsa staliniana.
Ecco là lo stracciarsi delle vesti per rivendicare il: “Le mance sono di tutti” (Ah Lenin, il frutto del MIO lavoro è mio, non di altri), “Io le raccolgo e le divido con tutti i camerieri” (ma perché?), “Anche i cuochi sono stati bravi e la mancia spetta anche a loro” (cucinare bene è il minimo del servizio per un ristoratore, l’attività dei cuochi e degli altri dipendenti va gestita e certamente incentivata con KPI appositi, non facendo il welfare comunista con la mancia guadagnata dai camerieri).
Niente, in Italia sono vetero-staliniani anche la maggior parte degli esercenti.
Non si riesce a spiegare che la meritocrazia e la presunta “diseguaglianza” di trattamento in funzione dei risultati sono un BENE e un vantaggio competitivo per la società e che le performance quando le pretendi e vengono incentivate livellano tutto verso l’alto e fare il contrario invece devasta il livello di servizio e l’esperienza cliente.
Ora, non son certo qui a fare apologia statunitense. A livello sociale vi sono certamente tante cose che sono discutibili e altre che decisamente non riesco ad apprezzare. Ma quando si parla di vendita, di come fare felici i clienti e di come generare profitti per la propria azienda, beh devo riconoscere che se uno fosse sano di mente vi sarebbe poco da discutere.
Trovo anche abbastanza odioso questa ostilità generale dell’italiano medio a dire il vero verso il venditore. Non parlo dei clienti che si risentono per un venditore invadente.
No, no. Parlo dell’imprenditorucolo medio rosicone che cerca in tutti i modi di sminuire, schiacciare, livellare, svilire e appiattire la meritocrazia dei propri venditori equiparandoli a altri ruoli aziendali o a sé stesso.
Il venditore ha il diritto di guadagnare più di tutti
Quante volte negli anni mi sono dovuto stare zitto al cospetto di possessori abusivi di partita iva che se ne uscivano con robe del tipo: “Eh ma il venditore mica può guadagnare così tanto sennò poi si monta la testa!” O “Eh ma se lo pago così questo finisce che guadagna più di me!”.
L’invidia sociale e del pene nei confronti dei venditori è una piaga che devo ammettere senza voler apparire esterofilo -quale NON sono – riscontro pur essendo uno che il mondo lo gira parecchio in preponderanza assoluta in Italia.
Sarebbe da capirsi che il guadagno del venditore deriva dalla sua capacità di vendere, cioè generare fatturato per l’azienda. E più lo fa, più ovviamente l’azienda ha risorse.
Questo non è detto che incida direttamente sui guadagni dell’imprenditore stesso. I guadagni dell’imprenditore derivano da quanto lui sia in grado di amministrare l’azienda stessa e le sue finanze.
Ciò detto, è certamente possibile -come è capitato per anni nelle mie aziende – che un venditore “guadagni” più dell’imprenditore. Non vi è nulla di strano, anzi, soprattutto i primi anni dovrebbe essere quasi la norma.
E’ possibile perché magari il venditore è più capace nel suo compito e nel raggiungimento dei suoi obiettivi di quanto l’imprenditore lo sia nel raggiungere i suoi.
La ridico in maniera più semplice: E’ possibile che un venditore sia più capace a vendere di quanto tu – pur essendo de facto il suo titolare – sia capace a fare impresa.
Questo si traduce che alla fine dell’anno in questo rapporto di inter-dipendenza è possibile il venditore abbia portato a casa più provvigioni di quanto all’imprenditore siano rimasti di utili aziendali.
Oppure, meglio ancora, l’imprenditore accorto si dà un compenso per la sopravvivenza i primi anni e si impegna a re-investire per almeno 5-7 anni ogni euro che può in azienda, per il marketing, per la ricerca e sviluppo e per le risorse umane.
Un vero imprenditore, piccolo o grande che sia queste cose le sa e le applica. Io per primo ho sempre gestito così le mie aziende, azzerandomi in molti casi compensi e finendo sorpassato da membri del mio team che meritavano un compenso equo e proporzionale al loro valore, superiore a quanto avrei tenuto per me.
Il venditore non è tenuto a reinvestire in azienda. L’imprenditore sì.
L’invidia sociale per “il venditore che guadagna più di me” con conseguenti azioni idiote di gestione è la piaga imprenditoriale che più di tutte limita la crescita delle aziende e impedisce che nel mercato del lavoro si sviluppi una professionalità e una offerta di venditori professionali di alto livello.
E’ molto difficile trovare buoni venditori, sai perché? Non voglio attaccare storie con la formazione che solo io ho saputo portare e bla bla bla… lascia perdere per un attimo questa auto-celebrazione odiosa (ma che contiene un fondo di verità che dopo ti mostrerò).
Il problema del trovare buoni venditori è che se sei scarso “è tutta colpa tua”. Cosa che non è difficile essere visto che vieni mandato allo sbaraglio nelle migliori delle ipotesi o addestrato con tecniche e strategie di vendita che erano già vecchie negli anni di Carosello.
No, il vero problema è che se per caso sei o diventi bravo, la gente in azienda ti odia. I colleghi ai quali paghi lo stipendio perché guadagni più di loro. Il titolare perché finisci per guadagnare più di lui o perché “lo metti in ombra con i clienti” o altre paranoie del genere.
Perchè dovrebbe importare a un venditore di diventare più bravo?
Il premio per essere bravo di solito per un venditore si riassume nel trittico della morte che è:
- Invidia sociale e ostracismo in azienda
- Riduzione delle zone sennò guadagni troppo e ti monti la testa
- Aumento degli obiettivi e dei target aziendali (il buon vecchio +10% basato sul nulla)
Quindi è molto, molto difficile che chi fa il venditore prenda il suo lavoro sul serio. Commessi e camerieri perché non ricevono nessun tipo di incentivo nel lavorare con entusiasmo e comportandosi da veri e propri venditori. E in quei casi nei quali spontaneamente ricevono mance queste gli vengono pure sottratte o redistribuite modello Unione Sovietica.
I venditori “con la valigetta” perché se sono bravi, vengono castrati in tutti i modi possibili.
Se c’è scarsità di venditori capaci in Italia -quale vi è seriamente e lo dico con molta tristezza e rammarico nel cuore- la responsabilità è del bruttissimo atteggiamento che le micro imprese e le PMI hanno nei confronti dei venditori o di chi in maniera più o meno formale dovrebbe ricoprire quel ruolo.
Per darti un dato, il mitico corso Venditore Vincente che è da quando è nato il corso di tecniche di vendita di maggior successo in Italia e in Europa numeri alla mano, conta in proporzione e quasi per assurdo “pochi” venditori.
Intendo che chi fa il “venditore con la valigetta” in Italia è trattato così male, è così deluso e disilluso sul proprio futuro o ormai così seduto, che non se la sente nemmeno di investire su sé stesso per migliorare la competenza fondamentale della propria professionalità.
Ti posso svelare senza alcun problema che oltre il 70% delle persone che frequenta i miei corsi di vendita sono invece imprenditori, esercenti e liberi professionisti. Cioè nella maggioranza dei casi coloro i quali mandano avanti la baracca con tante ore di duro lavoro a settimana, occupandosi essi stessi anche del grosso delle vendite in azienda.
Questo da un lato mi inorgoglisce, perché sono riuscito in anni di duro lavoro a convincere il piccolo imprenditore italiano, l’artigiano, il negoziante, il personal trainer così come il libero professionista, l’avvocato, il commercialista, il ristoratore ecc… che la vendita è una delle due competenze fondamentali per lui.
Dall’altra sono frustrato perché vedo una generazione di venditori delusa, frustrata, disillusa e demotivata. Svogliata -spesso a ragione causa il contesto nel quale si ritrova ad operare- nel crescere e poco propensa a pensare che i suoi risultati possano essere migliorati.
Che poi non riesco nemmeno a dargli torto, anzi, visto che se io gli insegno a vendere di più – e loro vendono di più come de facto sempre fanno – come premio ricevono poi tagli delle zone, riduzione dei compensi e aumento dei target di fatturato.
Per quanto io stia combattendo da tempo una dura battaglia a favore dei venditori e parimenti degli imprenditori e dei liberi professionisti in gamba affinché la vendita non solo sia capita nella sua importanza ma anche che socialmente venga valorizzata affinché si sviluppino le condizioni sociali per farla attecchire sempre di più, la guerra è ancora molto al di là dall’esser vinta.
Hotel California e altre cose nostalgiche…
Ti dicevo prima del perché amassi la California, in particolare la California del Sud. A parte per il clima meraviglioso tutto l’anno e un ambiente nel quale si respira vendita e marketing in ogni negozio, ad ogni angolo, presso ogni scorcio in salsa Beach Boys… tutti i miei riferimenti culturali sono qui.
Detto in maniera diversa, come ogni bambino prima e ragazzo poi cresciuto guardando la televisione, ascoltando musica e andando al cinema, tutto ciò che guardavo e ascoltavo da lontano, nella realtà accadeva qui.
E’ a Hollywood negli Universal Studios che tutte le serie della mia infanzia venivano girate. Happy Days veniva girato qui. Kitt, la “Supercar” di Michael Knight è qui che è ancora conservata, le mitiche scene delle esplosioni impossibili dell’A-Team accadevano su queste strade e su questi set. Ed era qui che Mc Guyver sventava minacce nucleari con un accendino e una molletta per i capelli.
Le porte del Jurassic Park è qui che si sono aperte, lo Squalo mieteva in questi set le sue vittime, era nella cabina telefonica del set negli Studios che simulavano Metropolis che Cristopher Reeve si toglieva la camicia per mostrare la S di Superman e anche Pretty Woman che le tue amichette ti costringevano a vedere si svolgeva a Rodeo Drive.
Quando ero ragazzino, i Guns ’n Roses erano al Whisky a Go Go che spaccavano le prime sedie, mentre Ozzy rideva strafatto in un angolo e i Motley Crue lungo la strada suonavano “Girls Girls Girls” davanti al più famoso strip-club del Sunset Strip ed era al Beverly Hills Hotel che gli Eagles composero “Hotel California”.
La mia vita fuori casa durante l’infanzia si è svolta a Sassuolo in provincia di Modena tra camion e montagne di mattonelle accatastate ovunque. Ma quando rientravo in casa e accendevo la televisione, venivo catapultato immediatamente in California del Sud con una sorta di meraviglioso e immaginario teletrasporto.
Unisci quindi l’esser catapultato in questo “Fantasilandia” dei ricordi mentre ti accorgi di essere immerso in un humus culturale dove vendita e marketing fanno parte del DNA delle persone e immagino tu possa capire perché per me (ma immagino per molte persone della mia generazione) sia sicuramente un luogo che dona parecchie soddisfazioni.
Ti parlavo però di una riflessione importante che ho fatto durante la mia permanenza qui e che ti voglio riportare per darti uno spunto di riflessione.
La California del Sud è famosa tra le altre cose per le sue spiagge. E’ la parte degli USA che ha reso popolare non solo la musica dei Beach Boys che io adoro ma anche il surf (nel quale invece sono una pippa al sugo) e tutti i suoi riferimenti culturali.
E’ dalla California del Sud e dalla passione per il surf che infatti negli anni successivi è nata la moda dello skateboard per tutti coloro che abitavano nell’entroterra o in posti dove l’oceano non concede scorci validi per praticare la disciplina originale. In California del Sud però il surf è ancora molto popolare.
E’ così popolare che a SoCal (abbreviazione di California del Sud per i locali) moltissime scuole pubbliche addirittura offrono veri e propri corsi di surf nel programma scolastico. Saranno fighi o no a modo loro questi americani?
Quindi se abiti qui è molto probabile che sin da bambino ti venga insegnato tutto sul surf. Come scegliere la tavola, come selezionare il resto dell’equipaggiamento necessario, come usarlo in maniera corretta, come scegliere le onde “giuste” per il tuo livello, come salire su un’onda, cavalcarla il più a lungo possibile e soprattutto come “scendere” dall’onda senza ribaltarti, saltare via o farti male in uno dei mille modi possibili.
In pratica qui è normale che se esiste una disciplina che in molti vogliono praticare, vi sia una istruzione formale e costante sin dall’inizio al fine di trarre il massimo profitto dall’esperienza (divertirsi in questo caso) e il minimo dei rischi o danni collaterali possibili (farsi male).
E stiamo parlando di un atteggiamento rivolto a qualcosa di “futile” di base come un passatempo quale il surf.
Questo per me è sempre stato – e immagino sempre sarà finché non morirò e verrò ricordato dai posteri come uno che si sacrificò per la causa, incompreso in vita, santificato nella morte – il più grande scoglio culturale del lavorare con gli italiani.
Chi non è educato sin da piccolo al fatto che se bisogna fare una cosa, importante o anche no, bisogna imparare come farla e sicuramente c’è qualcuno che ne sa più di noi, ha già codificato un metodo, un sistema e possa insegnarmelo, farà molta fatica ad affrontare il discorso vendite e marketing.
Cosa blocca veramente lo sviluppo della vendita in Italia
Il venditore viene relegato, -e finisce con il relegarsi da solo per auto-convincimento- al ruolo di “colui che non ha un lavoro ma ha abbastanza parlantina e faccia tosta per “andare in giro a imbambolare la gente”.
Il libero professionista, prendi un avvocato, un architetto, un commercialista ecc… che di base sono imprenditori che guadagnano in funzione di quanto sanno vendere le proprie competenze a potenziali clienti, sanno per esperienza che per poter esercitare debbano “laurearsi”, cioè studiare ed abilitarsi e infatti lo hanno fatto.
Però da italiani non c’è modo di spiegargli che un conto è l’accesso all’abilitazione per praticare, che si prende con le competenze teoriche apprese sui banchi universitari, un conto è lavorare o addirittura diventare di successo e magari “ricco” con la propria professione.
Che si fa continuando a studiare, in particolare vendita e come trovare clienti. Che a scuola, nemmeno nella migliore università del mondo ti insegnano. E non si fa sperando che “passi la crisi”, che qualcuno ci dia “gli agganci giusti” né che “lo Stato faccia qualcosa”.
L’imprenditore italiano pensa che fare azienda significhi essere l’operaio o il tecnico più specializzato dell’azienda, che si apre la partita iva, si prende il capannoncino o l’ufficio, mette la moglie all’amministrazione (che così gestiamo il nero), e i venditori sono qualcosa di “esterno” all’azienda, un male necessario al quale piegarsi il meno possibile che ruba il frutto del lavoro dell’imprenditore.
Infatti come dicevo prima, l’imprenditore italiano è spesso comunista nell’animo, convinto fino al midollo che se il suo prodotto “vale” 1000€, il fatto di doverne dare 100€ al venditore sia per lui un costo e quindi una sottrazione alla “sua” ricchezza.
Questo devo ammettere che mi fa venire a volte dei severi attacchi di depressione se penso alle potenzialità che abbiamo.
Quando anni fa diventai prima studente e poi business partner di Al Ries, l’ideatore del concetto di posizionamento di marca, arrivammo insieme a concordare su una definizione.
“Un imprenditore è un esperto di marketing che sa leggere un bilancio.
Un venditore è un esperto di marketing in grado di applicare la strategia aziendale sul cliente.”
Semplice, facile, chiaro e cristallino.
Detto in maniera ancora più semplice, un imprenditore NON è il tecnico dell’azienda né un operaio specializzato trasformatosi in tuttofare “che se non c’è lui si ferma tutto”. L’imprenditore è un esperto di marketing cioè nel posizionare i propri prodotti e servizi e nel trovare clienti per l’azienda, che prende decisioni imprenditoriali leggendo numeri e KPI.
Il venditore è parimenti un esperto di marketing, cioè di posizionamento e quindi di psicologia di acquisto, in grado di applicare quella strategia sul cliente finale al fine di farlo acquistare.
Laddove, soprattutto agli inizi, l’imprenditore o il libero professionista sia anche il “primo venditore” dell’azienda è pacifico che debba conoscere tutto il sistema, dal “come trovare clienti” al chiuderli.
Nel tempo potrà decidere di delegare ad altri la parte della negoziazione con il cliente e quindi creare la sua rete vendita e formare una squadra di marketer interni per poter gestire le parti operative del trovare clienti, tenendo per sé solo la parte strategica.
Il micro e piccolo imprenditore medio invece vuole fare il contrario, reinventando all’italiana e a modo suo le cose. Lui vuole rimanere a fare il tuttofare e l’operaio specializzato più esperto dell’azienda. Perché così appaga il suo bisogno di sicurezza, di controllo e il sentirsi importante.
Ovviamente per quelle “scemenze” di marketing e vendita lui “non ha tempo”. Non vuole saperne e non vuole capirne. Nella migliore delle ipotesi non si fanno proprio (e l’azienda ha vita breve, anche perché la maggioranza delle piccole aziende italiane appoggia PERICOLOSAMENTE il suo fatturato su pochissimi clienti. Ne saltano un paio e la banca ti chiama… e non con notizie piacevoli…).
Nella peggiore delle ipotesi delega a qualcun altro la vendita, con magari società di head hunting che “trovino venditori bravi” (che se son bravi vengono a lavorar per te, perché te sei furbo…) o alle agenzie che “trovano i clienti su indernette…”.
Nei casi più squallidi si arriva a pubblicare le proprie offerte su portali tipo preventivistracciati.com o presso aggregatori di offerte come Groupdebarbonn.
Perché questa cosa mi mette di cattivissimo umore e mi rende triste? Non certo perché io abbia velleità di insegnare a cantare ai muli, per carità.
Il negozio dove si paga 10.000$ solo per entrare a dare un’occhiata
Il punto è che proprio ricordandomi di Pretty Woman, una volta giunto a Beverly Hills mi sono fatto il mio immancabile giro per Rodeo Drive, la via dove Julia Roberts nei panni di Vivian faceva shopping.
Rodeo Drive per chi per caso non lo sapesse è in assoluto una delle vie più care del mondo. La maggior parte delle persone entra nei negozi come se fossero dei veri e propri luoghi di culto e mete turistiche e… non compra nulla. Non compra nulla perché i prezzi a Rodeo Drive per la “gente comune”, sono davvero da “fuori di testa”.
Per farti un esempio, una delle boutiques più famose in Rodeo Drive è Bijan.
Bijan ha nell’ordine queste caratteristiche:
- Non si vede dentro al negozio dalle vetrine sulla strada
- Si entra solo su appuntamento
- Per fissare un appuntamento si deve versare un anticipo di 10.000$, equivalente all’oggetto meno costoso del negozio.
- Se si fissa un appuntamento e non si compra nulla, la cauzione di 10.000$ viene in ogni caso trattenuta.
Questo è per farti capire un pezzo della mentalità “americana” quando si parla di dare valore e rilevanza ai propri prodotti o servizi.
Prima che tu dica che questa cosa “è un americanata” e che da noi non funzionerebbe mai, ti avviso che è la medesima procedura che applichiamo in RiFRA, per chi voglia una visita allo store di Milano con trattamento VIP effettuata direttamente dal presidente Matteo Rivolta.
Ciò detto, non era questo il punto che mi premeva sottolinearti.
Ciò che mi preme sottolinearti è che camminando per Rodeo Drive, la “Mecca dello Shopping” per le Star di Hollywood c’è una cosa che salta agli occhi: l’ottanta per cento dei brand sono I-T-A-L-I-A-N-I
Detto altrimenti, le persone più ricche del mondo sono convinte che non vi sia nulla di più bello, di maggior eleganza, di maggior classe o stile di quello che fanno e producono gli italiani.
Se da una parte – come ogni popolo del mondo – abbiamo le nostre idiosincrasie, i nostri tic e le nostre manie sulle quali si può e si deve per carità fare satira, alla resa dei conti quando si parla di aprire il portafoglio nel mondo pensano sempre che “Gli italiani lo fanno meglio” (esattamente come la mitica maglietta di Madonna del Like a Prayer tour).
E non è un caso che RiFRA, che produce le cucine più belle del mondo, faccia il 90% del suo business proprio all’estero.
Così come non è un caso che con le giuste strategie di marketing, i ragazzi di Wildix stiano esportando in tutto il mondo la loro via alle Unified Communication, e stiano ricevendo ordini importanti e pesanti anche dagli USA. Cioè andiamo a vendere le Unified Communication a casa loro.
Così come non è un caso che quando nel mondo vogliono la zanzariera numero uno per qualità, funzionalità e stile, il brand italianissimo SqualoNet (Sharknet per il mercato internazionale) stia mietendo cifre da capogiro.
Così come nemmeno è un caso che io sia relatore al prossimo Info-Summit a Cleveland, chiamato direttamente da Dan Kennedy per insegnare agli statunitensi -dai quali all’inizio ho imparato- la nostra via alla vendita e all’acquisizione clienti.
In maniera semplice, vorrei che fosse ovvio a tutti quanto lo è a me che siamo letteralmente accartocciati su noi stessi e seduti su una miniera d’oro.
Questo continuo rifiutarsi culturalmente di accettare che come vi è una eccellenza nel produrre materialmente le cose che è apprezzata in tutto il mondo, vi sia anche una eccellenza perseguibile nel “trovare clienti” e vendere.
Di base il mondo è a gambe aperte là fuori che aspetta che qualcuno gli venda i nostri prodotti mentre noi stiamo chiusi in cantina aspettando che qualcuno ce li venga a chiedere con un enorme cartello “Non aprite quella porta”.
I vestiti migliori del mondo li fanno gli italiani. Ma la catena di vestiti “chip and chic” è di uno spagnolo.
La pizza migliore del mondo la fanno a Napoli. Che mi sembra guardando la cartina si trovi precisamente in mezzo allo stivale e si affacci pure su un golfo. Eppure i miliardi di dollari li fanno dei bifolchi del Michigan con Pizza Hut… e ci mettono pure l’ananas sopra alla faccia nostra! A sfregio!
Il caffè espresso lo abbiamo inventato noi. Però i soldi li fanno quelli di Starbucks.
Sai la catena di gelati più importante del Brasile come si chiama? “Biancolatte” che ti assicuro non so parole portoghesi e il gelato viene servito in carretti ricavati da vecchie 500 restaurate all’uopo!
Devo andare avanti? Posso mostrarti il lato più oscuro dell’italianità nel mondo.
Sei mai andato in giro per il centro di Mosca? Da anni ci sono vetrine di boutiques e aziende in generale dai nomi italiani che NON sono italiane, non hanno titolari italiani ma “simulano” di essere italiani.
Sai perché invece gli italiani quando vanno all’estero dicono che “nessuno sa cucinare come noi?”
In parte per carità hanno pure ragione nella sostanza, ma la realtà è diversa e più raccapricciante.
L’italiano medio all’estero per non sbagliarsi e visto che non parla una parola della lingua locale (no manco l’inglese), si “rifugia” nei ristoranti italiani. Con l’unico piccolo problema che la cucina italiana nel mondo non esiste.
La cucina italiana nel mondo è un surrogato della cucina italo/newyorkese che sposa elementi della tradizione dei poveri immigrati italiani che non avevano gli ingredienti e dovevano adattarsi come potevano, alle varie stravaganze aggiunte dagli americani nel corso delle generazioni.
Quindi nel mondo, come in america, nel ristorante “italiano” trovi:
- Le Fettuccini Alfredo
- Spaghetti Meatballs
- Chicken Parmigiana
- Spaghetti Bolognese
- Ecc…ecc…
Che sono piatti completamente assenti nella cucina italiana.
Ma nel mondo si sono diffusi perché gli “americani” e chi è stato lì a fare esperienza hanno esportato nel mondo la cucina finto/italiana come standard, dato che gli italiani non hanno mai aperto catene all’estero né sono mai andati a lavorare in maniera organizzata per fare soldi.
Sempre e solo expat alla canna del gas con lo spirito di sopravvivenza e con quell’obiettivo in testa.
Ora, non voglio certamente parlare solo delle possibilità che gli italiani hanno all’estero. Non sono un’esperto di export ci mancherebbe, il punto non è affatto quello.
Come si costruisce un’onda?
Ma parlare di estero serve come metafora per far notare lo “scollamento” esistente tra la nostra capacità di produrre eccellenza e la ancora attuale mancanza nel saper vendere che ci condanna alla mediocrità. Altro che la crisi.
Il problema non è tanto che non sappiamo vendere i nostri prodotti all’estero, che è ben lontano all’inizio dall’essere un problema sentito dal micro-imprenditore o dal libero professionista, o dal venditore al quale hanno dato una provincia nel basso triveneto.
Il punto è che se sapessimo vendere sul serio otterremmo dei risultati straordinari anche in Italia. Che certamente per molti versi è un territorio difficile, arcigno, ostile in alcuni casi ma che è anche una miniera di opportunità se siamo in grado di coglierle prima della concorrenza o semplicemente con più efficacia rispetto a loro.
Torniamo per un attimo alla mia amata California e al surf. Come dicevamo ci sono corsi sin da bambini per imparare a fare surf in tutte le sue sfaccettature.
Ma non troverai mai ad esempio corsi che insegnano: “Come costruire un’ onda”.
Il surf è la disciplina di cavalcare le onde che la natura crea. O che Dio crea, se preferisci. Una entità superiore crea le onde, i surfisti si limitano a cavalcarle. Nessun surfista cerca di costruire le onde.
Se in un determinato momento l’onda non arriva, tu non la cavalchi. Ma non appena l’onda giusta si presenta, fai di tutto per cavalcarla più a lungo possibile anche sotto la tempesta. Con la consapevolezza che anche l’onda più piccola può comunque essere cavalcata se sai come farlo e che se sai aspettare e sei metodico, vi sarà sempre una continua alternanza di tante onde così così, alcune medie a altre onde favolose.
Ma devi buttarti in mare e andargli incontro per selezionarle e trarre il meglio da ognuna.
Così la vendita non è l’arte di “inventare frottole per piegare la mente delle persone”. La vendita è l’arte di cavalcare la psicologia di acquisto delle persone.
Al Ries chiama quella psicologia di acquisto “posizionamento di marca”. Non puoi creare un marketing “artefatto” come cercano di fare i creativi. Perché la mente non funziona così.
Puoi solo “cavalcare” le onde della mente dei clienti e trovare quelle nicchie che sono già lì in termini di percezioni e che aspettano solo di essere scoperte e stimolate.
Io ho unito questo lavoro con la conoscenza sistematica frutto di oltre un ventennio di lavoro dei modelli di personalità che compongono i profili dei potenziali clienti. Quegli schemi di pensiero non li ho inventati io. Come il surfista non crea le onde. Insegno solo alla gente a riconoscerli e a cavalcarli come si cavalca un’onda.
Questo insieme di competenze è “italiano al 100%. Non esiste nemmeno in USA dove vivono e insegnano coloro che mi hanno insegnato tutto. Per questo mi è stato chiesto di portare là il frutto delle mie ricerche, ed è quello che farò.
Come è possibile riconoscere i differenti tipi di onda è possibile riconoscere i diversi tipi di mentalità d’acquisto del cliente e sfruttarla a nostro e a suo vantaggio per “cavalcare insieme l’onda” il più a lungo possibile.
Come vi sono onde che non si devono cavalcare perché vi è il rischio di perdere tempo o peggio farsi male, vi sono clienti che:
- non sono sufficientemente pre-motivati ad acquistare, o
- non sono ancora pronti per percepire la nostra idea differenziante come fondamentale
- non hanno il budget giusto,
- o semplicemente non sono in una posizione di potere sufficiente per decidere.
- oppure ancora vorrebbero acquistare ma la loro situazione pre-esistente gli impedisce di farlo ora.
Con ognuno di questi clienti possiamo evitare di perdere e far perdere tempo, piantare un “seme” che magari crescerà nel tempo più rigoglioso e tornare a cogliere i frutti quando sarà il momento, mentre ci dedichiamo a spremere le nostre risorse migliori verso i clienti migliori oggi.
E con questi clienti possiamo imparare a fare upselling in maniera automatica come gli americani. Che significa venderti una quantità maggiore di merce o una variante più costosa e premium price.
Che non è possibile entrare in un bar italiano e sentire ancora scene come “Un caffè, grazie”, “Ecco a lei”, “Eccole i soldi”, “Buongiorno e arrivederci” mentre se entro in un locale USA provano a vendermi pure le tazzine e la macchinetta del caffè.
O peggio, che non riusciamo a dire nemmeno:
“Lo vorrebbe doppio per soli 50 centesimi in più”?
Perchè il barista italiano è furbo!… se lo vuoi doppio son due caffè quindi te lo fa pagare doppio non capendo la differenza tra punti margine sul singolo prodotto e quelli sul totale della transazione nella quale devi ricercare invece il valore totale, ma così entro nel tecnico e non voglio annoiarti dopo un report così lungo.
Soprattutto demotivando tutti i clienti a chiedere “di più” e a dargli più soldi, perchè lo so anche da solo che se ne prendo due mi costano il doppio. Il punto è proprio incentivare e motivare i clienti a spendere di più cavalcando la loro psicologia di acquisto come un’onda e unendo un’offerta vantaggiosa per noi e irresistibile per loro.
Mi limito a dire però che i bar in media fanno dal 40% al 60% del loro fatturato con le colazioni e semplicemente imparare a dire: “Ne vorrebbe uno doppio per affrontare la dura giornata di lavoro? Solo 50 centesimi in più, la metà di un caffè normale!” porta ad aumentare in maniera vertiginosa i propri profitti su base quotidiana, settimanale, mensile e annuale.
Figuriamoci con tutto il resto che si può fare. Certo che finché il barista pensa che il suo lavoro sia FARE i caffè invece che venderli e assume gente pagata a fisso è dura spremere soldi da quei caffè. E infatti andiamo avanti ormai da anni con miscele di merda da 4€ al chilogrammo quando un caffè onesto parte da 20€/kg. Nella patria del caffè. Poi dite che sono io.
Ciò detto, le meccaniche di upselling e cross-selling diventano un gioco estremamente più facile quando si conosce il nostro metodo nella sua interezza.
Ti anticipo se sei spaventato che non dovrai venire a Cleveland, non è necessario.
Mi puoi trovare infatti in tour in nove città italiane nei prossimi due mesi e insieme al biglietto per il corso “Falli Abboccare” riceverai una valanga di bonus straordinari che accelereranno la tua corsa verso i risultati grazie al potere della vendita professionale.
Ti aspetto in sala per mostrarti in anteprima ciò che andremo ad insegnare agli yankee. E non sono convinto di voler rivelare loro proprio tutto tutto… ma a te sì ;)
A presto.
PS: Clicca sull’immagine qui sotto, prendi il tuo biglietto e ricordati di rubarmi letteralmente dalle tasche i favolosi bonus finché ce ne sono!
Super articolo Frank! Imparerò a cavalcare l’onda a Milano al corso Falli abboccare!!!!
Ottimo, a presto allora!
spettacolare come sempre! Ci vediamo a Firenze al corso Falli Abboccare, a Bologna al corso UC&C Wildix e a Lubiana per Venditore Vincente, ovunque andrai ti cercherò, ti troverò e ti studierò
Sono convinto che sia una cosa positiva ma pare una minaccia :D
articolo spettacol
Questo articolo é spettacolare, l’ho letto tutto d’un fiato. Grazie Frank.
PS: ti ho scoperto grazie a Luca Lixi che parla sempre benissimo di te.
aricolo spettacolare, una bomba di informazioni
Grazie!
Continua a seguirci
Leggendo questo articolo sono quasi deluso dal non aver voluto lavorare in una azienda vendita diretta di prodotti surgelati quando ero più “giovane”. Avrei sicuramente imparato tante cose.
Magari qualcuna delle quali espressa in questo articolo.
Ti ringrazio di esistere Mr. Frank
Tanta roba davvero!
Grazie Gianluca!
Salve Frank, concordo con tè, per il tuo marketing, tutto ciò che dici corrisponde al vero, e per capirlo si deve provare sulla propria pelle… complimenti…. ma sopratutto ci vogliono le palle, e la capacità di capire cosa è meglio e come fare il meglio… a proprio vantaggio, nemmeno chi ha studiato o laureato capisce…. dai tuoi discorsi comunque ho riscoperto qualcosa di importante che col tempo si era allontanata da mè, Ora riprendo in mano la mia vita….
Forza Fausto!